Turbocity: l’iconico bus prima della rivoluzione nel tpl, dal punto di vista del conducente
Durante la mia esperienza nel trasporto pubblico locale, nel 1995, nella mia rimessa c'erano almeno 400 conducenti e un parco mezzi in cui prevalevano gli U-Effeuno, seguiti dai 421 e dai Turbocity.Quest'ultimo era un modello d’élite e le rimesse meno fortunate (come la mia) ne avevano pochi, distribuiti su linee particolari e in vista del centro storico milanese. Avere l’opportunità di guidarlo non era semplice, ma ogni tanto capitava. Erano presenti versioni urbane e interurbane a due porte corrispondenti alle serie “tecniche” 500 e 600”.
di Gianluca Celentano, conducente bus.
L’articolo, che ha l’obiettivo di offrire una panoramica soggettiva del veicolo, basata sull’esperienza di guida e i ricordi legati al modello in oggetto, è stato aggiornato e integrato a seguito di alcune segnalazioni ricevute in merito a inesattezze riportate nella prima versione dell’articolo, delle quali ci scusiamo con i lettori.
CREDIT FOTO DI APERTURA: Matteo Spina (http://www.mondotpl.altervista.org/a/atm-milano-/autobus/autobus-urbani/4700-4791-iveco-turbocity/4790-.jpg.html)
CREDIT FOTO A SEGUIRE: Fabio Colabello
Se dovessi utilizzare i codici di serie utilizzati da Iveco per identificare i bus, i ricordi si confonderebbero e sarebbe difficile individuare il modello corretto. È meglio quindi parlare dell’iconico Turbocity.
Differenze mascherate
Agli occhi inesperti, il Turbocity appariva simile all’U-Effeuno; con la grande differenza della presa d’aria posteriore, situata sul lato opposto al tubo di scarico rivolto verso l’alto. In realtà, le differenze erano molte, a partire dal motore turbo, non aspirato come negli U-Effeuno, ma comunque a sei cilindri.
Il metodo infallibile per distinguerli era leggere i numeri di matricola posti sui lati: i Turbocity erano la serie 47 mila. Quindi nel piazzale si parlava di 47 per riferirsi al Turbocity.
Scavando nei ricordi…
Durante la mia esperienza nel trasporto pubblico locale, nel 1995, nella mia rimessa c’erano almeno 400 conducenti e un parco mezzi in cui prevalevano gli U-Effeuno, seguiti dai 421 e dai Turbocity.
Quest’ultimo era un modello d’élite e le rimesse meno fortunate (come la mia) ne avevano pochi, distribuiti su linee particolari e in vista del centro storico milanese. Avere l’opportunità di guidarlo non era semplice, ma ogni tanto capitava. Erano presenti versioni urbane e interurbane a due porte corrispondenti alle serie 5.300 e 5.500, rispettivamente carrozzati Macchi e Mauri.
Il turno di guida con il “Turbo” era diverso, meno stancante e più soddisfacente grazie alle migliori prestazioni, inclusa una frenata superiore grazie ai freni a disco. Le linee o i conducenti che avevano in uso il Turbocity erano considerati privilegiati, generando una scia di commenti folkloristici e romanzati tra i colleghi.
I punti forti del Turbocity
I bus turbo si distinguevano, nell’esperienza del driver, per diverse caratteristiche: sterzo morbido e rapido, sospensioni migliorate, frenata più potente e maggiore ripresa. Anche le porte, sempre pneumatiche, si aprivano rapidamente sfiorando i tre tasti rossi, secondo la sequenza che ognuno preferiva. La mia era: avanti, dietro e centrale, utilizzando indice, anulare e medio.
Come descritto in precedenza, l’assetto era leggermente puntato verso l’asse anteriore, ma si stabilizzava perfettamente appena si dava gas; è da sottolineare che l’azienda allestiva e personalizzava già in sede costruttiva le funzioni dei bus in base alle sue esigenze. Ad esempio, staccando la piccola chiave si spegnevano tutte le luci e non si potevano attivare le porte. Questo è confermato da un pensionato che era un collaudatore dei bus Atm.
Lunghi e attenti progetti anni ‘80
Sebbene l’U-Effeuno avesse una buona tenuta di strada, il Turbocity risultava, sempre in base alla percezione di anni di guida, molto più stabile e con meno rollio. Non si sono comunque mai registrati ribaltamenti con l’U-Effeuno, seppur avesse un rollio molto accentuato. Le cambiate erano rapide e solo con il tempo i modelli più vecchi accusavano successivi slittamenti della frizione di disinnesto del cambio durante le lunghe soste. Una soluzione intelligente, per quanto non del tutto originale, per evitare il surriscaldamento dell’olio nel convertitore durante le soste in colonna: un relè temporizzato staccava la trasmissione lasciando libero il convertitore (pompa e turbina), permettendo al sistema di raffreddamento di mantenere la temperatura ottimale dell’olio cambio. Bastava alzare il piede dal freno per sentire l’innesto della trasmissione.
Con circa 12 metri di lunghezza, il Turbocity era maneggevole e non creava problemi nel traffico milanese. Ricordo di aver dovuto fare un rapporto informativo per aver urtato lo specchietto di un taxi in piazza Diaz. In realtà, lo specchietto aveva solo un segno arancione ma era integro. Infatti, la sterzata era maggiore rispetto agli U-Effeuno.
Passione e formazione
L’azienda, durante l’assunzione, curava molto la formazione del personale e distribuiva piccoli manuali di utilizzo di U-Effeuno e Turbocity. Era una pubblicazione interna, di cui purtroppo non sono più in possesso, ma assolutamente intelligente e utile per chi voleva approfondire l’argomento.
L’aspetto più interessante era la velocità del mezzo: sebbene l’azienda li avesse limitati a 80 km/h anziché 100 (nel caso dei suburbani), questo permetteva di arrivare al capolinea con più tranquillità, disponendo di qualche minuto in più per la ripresa psico-fisica. Ecco perché erano molto ambiti.
Cambia l’azienda e anche gli autobus
Che dire ancora? Erano affidabili e difficilmente presentavano guasti seri. Tuttavia, con l’introduzione del carburante GECAM, un diesel emulsionato, sul successore delle icone menzionate, il Cityclass, iniziarono a verificarsi alcuni problemi. Il Cityclass era un ottimo mezzo (e di ricordi ne ho parecchi), ma la sua elettronica era ancora in via di perfezionamento. Era la fine degli anni ’90, un periodo cruciale per le aziende del trasporto pubblico locale. Era un momento di grandi cambiamenti e privatizzazioni, che lasciavano dietro di sé un senso di nostalgia e introducevano un nuovo metodo di lavoro che non ha incontrato il consenso degli autisti.